BIBLIOGRAFIA

Hanno scritto di lui: Francesca Agostinelli, Peter Allmaier, Elisabetta Bacci, Boris Brollo, Antonio Cattaruzza, Giovanna Coppa, Cristina Degrassi, Giorgio Derossi, Michele Govoni, Philip Jones, Emilia Marasco, Enzo Minarelli, Giulia Parovel, Gabriele Perreta, Lucia Serena Rossi, Enzo Santese, Lucio Scardino, Giuseppe Siano, Francesca Tavarado, Maria Luisa Trevisan, Gabriele Turola, Alessandra Vicari, Roberto Vidali.

2022 EUROPEAN ANGELS

LA “POTENZA” DI “ANGELO”
Testi di Lucia Serena Rossi, Giorgio Derossi, Antonio Cattaruzza, Giulia Parovel

CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA LUSSEMBURGO

Si è subito colpiti, dinanzi ai dipinti di Giovanni Pulze, da una drastica contrapposizione drammaticamente accentuata con vivaci e quasi provocatorie coloriture: quella fra piazze e vie di grandi città sovrailluminate, sovraffollate e sovramovimentate – da un lato – e il flebile baluginare di un personaggio umbratile, solitario e quasi statico – dall’altro. Ciò che colpisce è la totale estraneità di questo personaggio rispetto all’ambiente in cui si trova – sembrerebbe – come per caso. Ed è un’impressione che diventa ancor più acuta non appena si nota che gli spuntano dal dorso due strani moncherini bianchi o grigi simili ad ali, contrassegno tipico degli angeli, come lo è anche – nell’angelologia delle religioni aniconiche – il nascondimento del volto dietro uno spazio vuoto. Non par dubbio che si tratti di un angelo, dimesso ma non caduto, giacchè non sembra affatto un temibile démone.
Ma a quale tipologia di angeli egli appartiene, fra le tante rintracciabili nelle molteplici tradizioni religiose? Certo non è un Serafino, che ha sei ali, con due delle quali si copre la faccia, con altre due i piedi, mentre usa le due rimanenti per volare; e non è un Cherubino, posto, con una spada fiammeggiante, a guardia del Giardino dell’Eden, da cui l’Uomo fu originariamente espulso; e non è neppure Michael, custode del popolo d’Israele, né uno dei quattro o dei sette “Arcangeli” o “Angeli della Faccia”: Gabriel, Michael, Rafael, Uriel, Raguel, Sariel, Geremiel. Sembra chiaro che l’Angelo di Pulze non si lascia catalogare né nominare e che si presenta come un semplice, anonimo, “angelo”. Non tanto un membro della “Corte divina” quanto e soprattutto – secondo l’etimologia greca che traduce quella ebraica – il “Messo”, l’”Inviato”, che porta un messaggio, come quello – emblematico – dell’Annunciazione: “Angelus Domini qui nuntiavit Mariae”.
Ma il nostro angelo, e il suo eventuale messaggio, non hanno certo lo splendore che emana l’Annunciazione nel racconto neotestamentario. L’eventuale “notizia” di cui esso è portatore non sembra “buona” ma piuttosto inquietante, come lo è lui, personaggio “misto”, più umano che divino; non ci appare – come nelle varie tradizioni religiose – quale rappresentante di una “Potenza” trascendente, bensì, al contrario, di un’”Impotenza”, non essendo neppure capace di attirare gli sguardi delle persone circostanti: egli appare, ma non è appariscente; è, nella sua veste incolore, quasi invisibile. Tuttavia è proprio questo contrassegno iconico a costituire l’essenza dell’angelo: far vedere, o meglio intravedere, l’invisibile nel visibile. E ha una valenza peculiare, in quanto “accomuna” l’angelo rappresentato a chi osserva la “rappresentazione” e a chi l’ha creata.
Ci sono in effetti diversi livelli di “osservazione” dell’invisibile-visibile: un’osservazione che coglie una certa “stranezza” del personaggio, la quale però non lo differenzia sostanzialmente dagli altri se non per il suo aspetto singolare; con un’osservazione più attenta si può cogliere invece una differenza sostanziale, ossia la natura angelica del personaggio; e con un’osservazione ancor più approfondita può risultare e risaltare la sua funzione angelica. A quest’ultimo livello di osservazione non può non fare riscontro un corrispondente livello di “creazione” da parte dell’artista. Ciò che fa entrare nell’ambito del “Sacro” la figura dell’angelo – e insieme con essa il suo creatore umano, appunto l’artista – è non tanto la sua natura necessariamente divina quanto la sua funzione, che è la sua stessa “ragion d’essere”. Le funzioni sono molte (annunciare, custodire, ecc.) e tutte manifestazioni della “Potenza” divina (“nomen est officii, non naturae”). Mentre la natura distingue (anche se non separa) il divino e l’umano, il trascendente e l’immanente (cielo e terra), le funzioni li collegano sino a farli compenetrare quasi in maniera “sacramentale”.
Rappresentare, o meglio presentare, tale fusione quasi-sacramentale nella funzione angelica è dunque un atto di “creazione” non solo artistica ma anche “religiosa” in quanto generatore di un’unione che è comunione: è questa doppia valenza dell’atto creativo a trasformare la “rappresentazione” figurativa in “presentazione” evocativa, il “dipinto” in “icona”, l’”artista” in “profeta” sui generis (ossia colui che dipingendo si fa portavoce e annunciatore visibile di un messaggio dell’invisibile Potenza trascendente, del “totalmente Altro”).

A questo più profondo livello di osservazione e interpretazione diventa allora possibile togliere l’angelo dall’anonimato e “battezzarlo” con il nome che sembra più appropriato fra i tanti attribuitigli dalla Tradizione religiosa: ossia quello appunto di “Angelo” (inteso non come nome comune ma come nome proprio). Che cosa annuncia dunque questo ritrovato e ribattezzato Angelo? Che cosa può annunciare Uno che non ha nessun potere, nessuna voce e addirittura nessun volto, e nessuno – a parte qualche bambino o qualche cane randagio – che lo veda o ne ascolti il silenzio? E’ proprio questo che egli annuncia: che, cioè, la sua totale mancanza di potere rende visibile l’incombente mancanza di senso, la pervasiva disumanità dell’odierno “vivere” umano. Ed egli testimonia pure che è la creazione artistica a restituirgli il potere primario di far vedere a chi osserva il dipinto ciò che non riesce a vedere osservando la realtà.

In virtù di questa “potenza iconica” del dipinto noi vediamo il vuoto interiore degli esseri freneticamente indaffarati e irresistibilmente attratti – come robotizzati manichini – dalle luccicanti immagini cui si appiccicano i loro sguardi come falene imbizzarrite; vediamo e capiamo che essi non badano al Diverso perché non se ne accorgono, dato che non luccica, non grida, neppur si muove. Questa di Angelo post-moderno non è dunque nemmeno, come quella di Giovanni Battista, una “vox clamantis in deserto”, in quel “popoloso deserto” che sono le frastornanti piazze e vie delle tentacolari metropoli perennemente intasate e soffocate da un traffico febbrile.

Sta proprio in questo eloquente silenzio, però, in questa visibile invisibilità, la nuova, inaudita Potenza che l’antico Arcangelo non aveva: la Potenza di far vedere, nei dipinti creati dall’Artista come autentiche icone, l’Impotenza dell’Umanità post-moderna prigioniera di un Vuoto sordo e cieco in cui si va da se stessa sempre più rinchiudendo. L’apparente insignificanza di Angelo non è dunque che l’immagine della nostra insignificanza.
Non è un’immagine del Divino, ma di un Umano decaduto: proprio per questo, però, un’icona “sacra”, perché ci può far prender coscienza del nostro stato e per ciò stesso aprire un varco di speranza verso una possibile “redenzione”. Solo vedendo riflessa nella sua la nostra impotenza possiamo infatti sperare di salvarci dall’Angelo della Morte che oggi ci sovrasta come un terribile Démone, già icasticamente descritto nell’angelologia delle leggende post-coraniche.

Esso è uno dei quattro Arcangeli ed è di proporzioni cosmiche poiché uno dei suoi piedi poggia su un seggio di luce nel settimo cielo mentre l’altro piede sta sul ponte fra Paradiso e Inferno. E’ alto settantamila piedi. Ha quattromila ali e quattro facce, e il suo corpo è completamente coperto di occhi e di lingue, tanti quanti sono i viventi. Alla creazione di Adamo riuscì a strappare alla Terra la manciata di argilla necessaria a Dio per la creazione. Per questa sua impresa, Dio gli diede l’incarico di Angelo della Morte – ben più terribile della stessa Morte -, perché aveva creato prima la Morte e aveva invitato gli angeli a guardarla, terrorizzati, per mille anni.

Se la visualizzazione di “Angelo” non avrà l’effetto salvifico sperato, questa potrebbe essere la successiva visualizzazione di un altro invisibile virus, letale per un Uomo senz’anima e senza futuro, privo anche della presenza dell’Angelo misericordioso che ancora ci soccorre nelle “icone post-moderne” di Giovanni Pulze, creatore della “potenza di Angelo”.

2019 MediaAngels

Mediangels di Gabriele Perretta

Chi è abituato a concepire Giovanni Pulze come un pittore dalla pennellata rapida come un colpo di sciabola, raffinato ed elegante anche nella rappresentazione del paesaggio metropolitano, chi pensa ad un Pulze newyorkese rimarrà probabilmente sorpreso da questo suo nuovo ciclo sugli Angeli e la diffusione degli smartphone.
Ma se si tiene presente quella che fu la formazione prima del nostro pittore, la sua esperienza mediale, un più scoperto e dichiarato amore per il documento meta-fotografico, allora si comprenderà come queste tavole sui messaggeri rappresentino una nuova metamorfosi dell’artista neo-mediale o cross-mediale. In questo caso sarà particolarmente facile sorprendere un’atmosfera “iperattuale”, rintracciabile negli interpreti più provocatori del “post-pop”, del “narrative” e soprattutto dei “simulazionisti”: proprio questo è il tono caro ad un Giovanni Pulze, ispirato ad un sentimento umano soffuso di urbanità e di collettivismo, attento ai fatti della vita comunicativa di tutti i giorni, non per sorprendere l’orpello, il grande apparente effetto, ma per coglierne il dato più segreto e sottile.

Giovanni Pulze intraprende la sua vicenda chiara e rettilinea di pittore fra il nono e il decimo del ‘900, in un momento in cui, mentre si estranea dalla vita artistica e sociale dell’Italia l’espressionismo, trionfano gli aspetti più deteriori e didascalici del simbolismo e dell’astrattismo, le perigliose svenevolezze di un decadentismo che mina ed avvilisce in cattiva letteratura la pur originale e vitale visione del concettuale. Giovanni Pulze non ha scritto la Metropoli o la post-metropoli di G. Simmel, la scorge nell’esaurirsi della visione che comunque non oltrepassa. La sua pittura si esaurisce con l’esaurirsi della visione dell’immagine metropolitana e rimane sotto il suo primato. G. P. dipinge, infatti, ciò “che vede”, ma non riesce a negare l’evidenza di quello che vede. Se si fosse distolto dall’omaggio all’icasticità avrebbe invece dipinto senza vedere. In un’astrazione. Perciò la sua esperienza rimane mediale. Mediale, raccolta di formule iconografiche, rilegatura della realtà.
Si tratta ancora – nonostante l’alto ingegno lo conduca alle soglie dell’agorà contemporaneo – della cover della cross-medialità. Insomma, nonostante l’esperienza in cui si trova, Giovanni considera ancora la pittura nei termini del plurale e non come partitura della singolarità, che prescinde dal tutto e non necessita di unificazione. E parla ancora di forma universale proprio quando si trova al colmo dell’inganno delle immagini. Ma come esprimere l’inganno stesso delle immagini, senza porre almeno un’immagine che non inganni? Senza sottomettersi al principio dell’ineffabile fotografico? Qui la simulazione si interrompe. E il suo pregio è proprio di non decidere, di lasciare qualcosa in sospeso senza avvalersi di un ricorso al feticcio. Pulze propone qualcosa – che resta pittorico – ma in termini di visione e non di risposta. Il nodo di cui parla Pulze – come il nodo della topologia comunicativa metropolitana dei mediali – rientra ancora in una concezione ibrida dell’immagine e quindi pluralistica del messaggero mediale. La stessa idea che la Fotografia evidenzia nel costituirsi delle cosiddette masse artificiali del Photoshop, o di app che manipolano l’icona.

Nel nuovo ciclo Mediangels di Pulze mi pare di cogliere una tesi di portata insidiosa per le conseguenze che comporta: non c’è topologia dell’immagine e dell’oggetto immagine. L’oggetto della pittura mediale è intopologico. Pulze spinge verso l’universalizzazione della visione, un prescindere dalla particolarità in nome dell’ineffabile. La topologia metropolitana propone l’assolutismo della visione nell’abolizione della particolarità. Che cos’è questa regolarità banale - costituita da forme che restano creative se indeformate con continuità - se non una sorta di metageometria idealistica? Una forma di questo tipo non è altro che la rappresentazione geometrica dell’idea universale platonica e di come possa pervadere le infinite idee particolari, senza mutare nella sua essenza. Una sorta di segno del segno, cioè di fantasma del fantasma. È la struttura stessa di quello che Pulze chiama messaggero iconico, cioè un meta-messaggero. L’ipotesi della continuità peraltro è un elusione del tempo: la folla è ovunque, al supermercato, in banca, all’ospedale, a lezione, in vacanza, ovunque ed in ogni momento, d’estate e d’inverno la folla assale l’immagine, circonda, copre. C’è sempre.

Sono sempre più rari i luoghi dove non c’è folla di smartphone, messaggeri e simulacri; dove non si viene presi d’assalto dalle rese pittoriche dei mediangels. Eppure l’uomo soffre di solitudine, di una solitudine angosciosa e intollerabile che ancora di più lo spaventa, sebbene non sia mai solo in mezzo alla smartphonite. È invece finalmente giunto il momento di renderci conto di un fatto: viviamo in una società fallibilistica nella quale, se da una parte si tura una falla, si corregge uno squilibrio, subito un altro si manifesta poco più in là.
Attraverso la smartphonite dobbiamo amministrare l’instabile, sapendo che è il bene più prezioso che possediamo. Il nostro stile, la non definibilità mediale, procedendo attraverso l’incertezza, senza rifarci per trovare soluzioni che si rivelano oppressive, al passato. Il terrorismo digitale cos’è, se non una forma di guerra atomizzata, che fa le sue vittime a una una, e mantiene un conflitto e un’organizzazione comunicativa? Chiudere un occhio, magari per troppa luce, equivale a fare dell’icastico una questione di omertà. Ecco la virtù del cittadino cross-mediale, che nell’amministrare l’immagine quale patrimonio da distribuire, sempre troppo tardi si accorge, come Polifemo, che aveva a che fare con Nessuno. Quel Nessuno che dei remi fece ali al folle volo. Il tono di un incontro: come nel leggere questi mediangels esiste un tono e un incontro. Solamente con la cifra della pittura questa voce giunge a tono. E non si sfuma. Tanto più che in materia di medialità la voce non può prestabilire la giusta causa. Nemmeno puntando a cogliere nel segno del silenzio. Errava, dunque, l’oratore cittadino che per cogliere nel segno, mentre declamava tra la folla, si faceva accompagnare da uno smartphone che gli suggeriva i tempi di attrazione e distrazione per l’innalzamento del capo.
La Testa china tiene il passo con la verità? L’espressione è l’arte di quel che accade con Nessuno? Lo sguardo pittorico, infatti, una volta rivolto e fissato su una scena urbana, dimessi infine i panni di scienziato ed umanizzatore del tutto, trova nella capacità narrativa e poetica la porta d’accesso per un modo di raccontare il mondo attraversando i grandi dilemmi dell’umanità, quali lo schermo, il caso o una possibile ambiguità quotidiana. Nel pensare pittorico si svela un ri-pensare che, facendosi mitico, non offende e non annienta né l’oggetto pensato né il pensante poiché, come sempre, all’ “inizio era la favola” ma, in fondo, anche alla fine “era una favola”. Sapere, infatti, d’essere una parte di una trama narrante che si perpetuerà attraverso altre immagini di altri smartphone, pur essendo una consapevolezza che atterrisce, è garanzia piena che si sta rispettando lo sguardo mediale contemporaneo.

Questo è infatti il sitz im leben del mito per Pulze, e del mito in generale: conoscere e non comprendere mai pienamente quel che si sta cercando di scrutare. Leggendo d’un sol fiato questa bella raccolta, si colgono in breve la profondità stessa dell’ingegno stilistico del nostro Pulze e la sua personale elaborazione del pensare e raccontare i Mediangels. Quel che resta al lettore attento di queste pitture è il piacere di aver assistito all’“incarnarsi” del mito attraverso i mille volti della tecnologia visiva, che più si fa “favola”, più si presta al fruitore, il quale è chiamato a non dimenticare mai che è l’immagine al servizio dell’umano e quasi mai il suo contrario.

2018 METROPOLITAN ANGELS

A cura di Antonio Cattaruzza e Philip Jones
IIC San Francisco USA

Artista eclettico, Giovanni Pulze, che, nell’arco della sua evoluzione artistica pur dedicandosi sempre con zelo e umiltà alla pittura e al disegno, è passato anche attraverso diversi momenti creativi diventando “designer” di occhialeria artistica di grido e in questa attività riconosciuto su tutto il territorio nazionale e internazionale. Non basta: si è sbizzarrito anche nel campo della ceramica in creazioni colorate e fantasiose. Ma egli aveva da sempre nel sangue la pittura: una passione che doveva seguire quasi fosse una predestinazione della sua vita e alla quale non ha potuto sottrarsi. Dalla fine degli anni ‘90, superata la parentesi di designer, Pulze propone come tema dominante delle sue opere il Metropolitan Angel. Dopo anni di mostre che l’artista ha già fatto in Scozia, Francia e Austria ed in tantissime città italiane, sembra sia arrivato il momento di far apprezzare anche oltre Oceano la sensibilità, originalità e la ricca tavolozza coloristica nonché l’espressività pittorica di Giovanni Pulze. L’istituto di Cultura Italiano che lo ospita a San Francisco rende possibile l’ingresso di questo artista contemporaneo anche in quel “Nuovo Mondo” che ha dato i natali a grandi pittori del Novecento, a tutt’oggi ancora imitati, e a correnti culturali che hanno inciso e modificato il gusto e le logiche tradizionali dell’arte. Infatti è già stato rimarcato in altre sedi come Pulze possa essere considerato l’esponente di una nuova corrente pittorica definita “FuturMeta” ovvero il connubio fra due importanti correnti pittoriche del ‘900: il Futurismo e la Metafisica. Il tema dominante di ogni quadro è il dinamismo vissuto dalla società contemporanea e l’esuberante e prevaricante tecnologia del ventunesimo secolo, elementi questi tipici del Futurismo storico con esaltazione della velocità e degli eccessi; parimenti troviamo rappresentata anche la sospensione dello spazio e del tempo con aggiunti elementi simbolici di spiccato significato metafisico. Pertanto, parlando più specificatamente della sua opera, evidenziamo come ad uno spettatore superficiale l’artista sembri seguire un percorso puramente figurativo, elementare negli elementi costitutivi della raffigurazione e di stampo tradizionale. Ma un occhio allenato ed incline ad una analisi attenta percepisce tanti elementi costituenti l’opera pittorica che inducono a riflettere e ad entrare in un mondo simbolico non banale e non scontato.
ANTONIO CATTARUZZA.

I paesaggi metropolitani di Giovanni Pulze, dagli splendenti colori in technicolor, sono pervasi dal trambusto e dai rumori, dalla luce abbagliante dei neon, da un insieme di luci e fanali che si riflettono sui grigi asfalti bagnati dalla pioggia. Soprattutto, però, sono paesaggi urbani pieni di persone: persone anonime, senza volto, che si proteggono trincerate dietro i loro ombrelli. Si proteggono, sì, ma da cosa?
Belli come sono, gli splendenti dettagli nelle opere di Pulze, servono solo a celare parzialmente un senso di profonda melanconia. Ci rammentano della solitudine, dell’isolamento della folla. Le figure camminano sole, incoscienti e forse noncuranti di chi passa loro accanto. Persino coloro che si stringono in qualche sporadico capannello, a braccetto sotto lo stesso ombrello, in quello che dovrebbe essere un momento d’intimità, sono in realtà indifferenti all’anonima massa di passanti senza identità che li circondano. Non si guardano neppure negli occhi l’un l’altro. Sono assieme, ma non insieme. L’ombrello, ovviamente, serve a proteggerci dalle intemperie ma allo stesso tempo serve a racchiuderci in una bolla, una sfera protettiva, che ci isola dagli altri.
Analogamente, terribile ironia della sorte, la tecnologia e i social media servono a connetterci con il mondo e allo stesso tempo a tagliarci fuori da coloro che ci stanno vicini: le persone che popolano le tele di Pulze guardano ma non si vedono, vivono, ma non “provano” nulla. Mentre ci muoviamo per il mondo, connessi ai nostri notiziari online disponibili ventiquattrore su ventiquattro, gli auricolari ci fanno ascoltare la nostra colonna sonora personale, trasformandoci nei protagonisti dei nostri drammi personali. Nel mezzo della folla, stiamo perdendo la capacità di percepirci e corrisponderci l’un l’altro, disimparando così il significato vero di “stare assieme”.
Tuttavia, guardiamo un po’ più da vicino le composizioni pittoriche: nel mezzo della desolazione, nel mezzo dell’isolamento e del vuoto, Pulze ci invia degli angeli. Sono quasi invisibili al primo sguardo, riconoscibili solo grazie alle loro fragili, pallide ali, e ai loro volti scoperti. Si muovo in mezzo alla folla, sono parte di essa, ma allo stesso tempo se ne discostano. Se le loro facce, come quelle degli altri, sono impossibili da cogliere, trasmettono comunque un senso di consapevolezza, di vigilanza, di comprensione. Essi sono “Santi” nel senso più letterale del termine ovvero sono separati da noi. Diversamente dagli angeli delle sacre scritture, questi angeli non hanno nessun messaggio da portarci: la loro mera presenza è sufficiente. Gli angeli invitano semplicemente a interagire con loro, a uscire dalla nostra bolla, a riscoprire ciò che è stato perso e, di conseguenza, a riscoprire noi stessi. Chiamiamola pure “salvezza”, se vogliamo. Lontani dalle caotiche masse, in una deserta strada di Parigi, un cagnolino guarda in su, per vedere un angelo che s’ incammina da solo. In una piazza affollata, un bambino guarda e lo indica. I loro visi, lo sappiamo, sono senza espressione, eppure scorgiamo qualcosa e capiamo che si è stabilito un contatto. La madre del bimbo, telefono in mano, rimane indifferente, ma il bambino, come il cane, ha notato qualcosa. Qualcosa di diverso. Qualcosa di nuovo, fuori dall’ordinario.
Per loro, vi è ancora della magia nel mondo. Essi, al contrario di noi, devono ancora obliare quel senso di unione e vicinanza. Metti via il tuo smartphone. Togliti le cuffiette. Posa l’ombrello. Fa’ il primo passo fuori dalla bolla.
Guarda, e vedrai degli angeli.
PHILIP GWYNNE JONES

2014 ANGELI

A cura di Antonio Cattaruzza e Roberto Vidali
Montefano Italy
Juliet Editor